Lo stato delle carceri al tempo del cororavirus

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In Italia in questo momento abbiamo circa 61000 persone ristrette in vari stabilimenti penitenziari a  fronte della disponibilità di circa 50000 posti e una situazione di sovraffollamento che non può che determinare promiscuità, tensioni e soprattutto rende impossibile l’attuazione dell’articolo 27 della carta costituzione la quale dispone che la pena deve essere finalizzata alla rieducazione del reo.

Allo stato attuale parlare di rieducazione del detenuto è pressoché, una vuota affermazione di principio lo conferma l’alto indice recidiva che si registra fra la popolazione dei detenuti.

Una situazione di grande criticità che si trascina da anni sempre con la responsabilità di chi amministra la giustizia con l’assenza di un piano organico finalizzato alla decongestione del carcere e avviare un reale percorso di rieducazione.

Una situazione che è letteralmente esplosa quando l’emergenza coronavirus ha determinato una stretta all’interno delle carceri con l’abolizione di colloqui tra i detenuti e loro congiunti. Era facilmente prevedibile che una misura di tal genere, seppur determinata dalla necessità di contrastare il contagio del covid 19 avrebbe innescato una serie di reazioni non controllabili.

Il 10 marzo sarà ricordato in Italia come il giorno della rivolta in tutti i carceri, da San Vittore all’Ucciardone detenuti sui tetti, devastati e incendiati reparti, saccheggiate  le infermerie e con il pesantissimo bilancio di 13 morti.

Morti che pesano come un macigno su chi aveva l’obbligo morale e giuridico di predisporre un piano alternativo all’abolizione dei colloqui.

Si sarebbe dovuto informare capillarmente i detenuti su quello che stava accadendo fuori dalle mura dei carceri e condividere un percorso comune per affrontare l’emergenza attraverso la possibilità di concedere telefonate più lunghe e l’utilizzo di Skype.

Tutto questo è mancato e la responsabilità è principalmente del Ministero di Grazia e giustizia e del DAP che nella circostanza si sono dimostrati incapaci e non all’altezza del delicato compito di che sono chiamati ad assolvere.

Spenta la rivolta, adesso si tratta di individuare gli strumenti più idonei per decongestionare i carceri. Il pacchetto di proposte avanzate dal Ministro di Grazia e Giustizia Bonafede con l’utilizzo di braccialetti elettronici e al ricorso alle misure domiciliari per chi deve scontare una pena inferiore a 18 mesi è palesemente insufficiente.

Occorre invece come richiesto dai vari responsabili della delle procure e dei presidenti degli uffici di sorveglianza oltre che dai numerosissimi associazioni che lavorano quotidianamente a  contatto con i detenuti e conoscono la realtà del carcere, un provvedimento più vasto e generalizzato.

Occorre utilizzare i vari istituti previsti dalle misure alternative con la concessione dei domiciliari, l’affidamento ai servizi sociali, la liberazione condizionata per chiunque debba scontare una pena inferiore 4 anni.

Un provvedimento di liberazione anticipata agli ultrasettantenni e per chi soffre di particolari patologie incompatibili con il regime detentivo.

Questo non vuol dire liberare tutti ma rendere più gestibile un sistema carcerario che ormai è al collasso.

Si tratta di provvedimenti di buon senso che consentirebbero di agire efficacemente per contrastare il contagio in carcere, che si sta rapidamente diffondendo, mettere in sicurezza il personale penitenziario e rendere più umana la pena.

Il carcere non deve essere più usato come un luogo separato dalla realtà e del dalla società ma come parte integrante del territorio in cui viviamo un luogo dove sono custoditi esseri umani che rimangono cittadini titolari di diritti e doveri e dove la pena deve essere intesa come un tempo per rivedere la propria esistenza, le proprie scelte e i propri errori per rinascere a nuova vita.

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